by Lorenzo Rebediani
I muschi riscrivono l’immagine del substrato a cui appartengono e lo fanno, rispetto ad altre presenze vegetali dalla vocazione plastica, in caratteri pittorici. Esistono oltre quindicimila specie e non c’è habitat che gli sfugga. Dall’Antartide, dove giusto qualche alga e lichene possono sopravvivere, ai deserti assolati, dai rami di un albero ospite al cornicione di casa, sanno tenacemente ritagliarsi una loro nicchia. I muschi fanno capo a quel territorio vaporoso dove il potere spazializzante è dato dal colore, che nella sua vibrazione ci restituisce il reale. Sulle complesse geografie di un manto di muschi la luce esplode nel suo divenire e arriva agli occhi dell’osservatore restituendogli l’immagine colorata del mondo. Come diceva Goethe: “Il colore è un valore d’ombra” e solo attraverso la materia opaca la luce assume le fattezze del colore. Questi piccoli vegetali sanno come rendere il “lumen opacatum” e sono una perfetta superficie di restituzione del colore secondo la descrizione del filosofo gesuita Athanasius Kircher. Molti sono i motivi del loro successo nel mondo dell’arte, dell’architettura e del design contemporanei. Non sono poche le proposte che attingono più o meno direttamente allo sterminato repertorio dei muschi: wallpaper, pattern e quadri nell’interior, intere pareti verdi a cascata nell’arredo urbano, persino anelli, orecchini e bracciali. La loro ribalta contemporanea non ha certo il sapore della scoperta, se mai di una ritrovata sensibilità: ci sono culture che li hanno contemplati, prima fra tutte quella giapponese. Il Koke-dera, o Saiho-ji, a Kyoto, è uno straordinario tempio zen in cui i muschi sono i veri protagonisti. La loro presenza ne è il carattere costitutivo, ed è testimoniata dal lontano 1339.
Anche il mondo dei cercatori e commercianti di piante li ha notati, da qualche tempo: sono passati trent’anni da quando un brillante vivaista fiammingo, specializzato in cacti e altre piante curiose, mise in listino le Marchantia, un genere di briofite (gruppo di piante che identifica muschi ed epatiche), proprio per il loro aspetto stravagante. Vere e proprie malerbe, le possiamo rintracciare sul selciato di casa, vicino al container dell’immondizia, in ogni vicolo. Questo non impedì di piazzarle sul mercato a un prezzo nient’affatto esiguo. D’altronde ebbe il merito di portarle alla luce, diamine, loro che, come dicevo, appartengono ai “valori d’ombra”. Valori non certo colturali: non tutte le briofite amano starsene relegate in grotte umidee l’immaginario umbratile cui sono legate è spesso fuorviante. Nei centri urbani, per esempio, non sarà difficile rintracciare Tortula muralis, con le sue foglie maculate, o i cuscini verde petrolio di Ceratodon purpureus. I lunghi steli che sorreggono le capsule seminifere si chiamano “seta” e sono in questa specie di un profondo rosso brunito. Tortula muralis e Ceratodon purpureus sono tra le briofite più resistenti all’inquinamento: abitano i centri storici di ogni grande città, proprio le stesse pareti di marmo e pietra calcarea voracemente consumate dall’acido solforico delle deposizioni acide. In associazione troveremo Bryum argenteum, diffuso anche lungo le strade e i marciapiedi, dalle foglie luminescenti. Per le sue esigenze in fatto di azoto è il più comune dei muschi metropolitani, e ci sorprende che l’unico “habitat naturale” dove si sviluppa in abbondanza corrisponda ai margini di certe colonie di uccelli marini. Per questa loro tenacia, rifiuteranno qualsiasi tentativo di coltivazione in ombra umida. In queste specie, al contrario, il massimo livello insediativo si rileva proprio sotto le superfici vetrate e in altri microhabitat limite che scotterebbero o ucciderebbero persino molte cactacee eliofile. Hanno una sorprendente capacità di rimanere all’asciutto per lunghi mesi, aspettando l’arrivo della pioggia in uno stato di latenza, per poi rinverdire e avere l’opportunità di crescere.
Tortula muralis ama il cemento, i mattoni, l’argilla. Ceratodon purpureus è piuttosto cosmopolita, lo rintraccerete nelle grondaie e sui muri umidi. Altra stranezza di queste specie, come di altre epifite, è che non solo crescono in mancanza di suolo, ma spesso lo ripudiano sdegnosamente. Al genere Marchantia appartiene poi la specie polymorpha, la più grossa e comune delle epatiche, presente ovunque ci sia abbondanza d’acqua, e dall’aspetto stranissimo. Una modesta lente d’ingrandimento rivelerà qualcosa che sembra appartenere maggiormente a un romanzo di fantascienza che a un angolo di verde suburbano. Stami piatti brulicano sopra sagome di membranose zampette verdi dotate di ventose, con essi leggiadre coppe di capsule ovali e frutti a forma d’ombrello, distinti in maschili e femminili. Infine, Plagiochila asplenioides, simile a una piccola felce. Le montagne, i boschi, i luoghi ombrosi, specialmente le rocce, purché all’umido, sono i suoi domini e ciò rende le foglie della specie talvolta molto grandi (per un’epatica, sia chiaro: si parla di quasi mezzo centimetro). Queste, vicinissime e organizzate simmetricamente attorno al fusto, sono un piccolo trionfo di trasparenza traslucida: nel complesso, l’incrocio tra un merletto e la pinna che circonda la seppia, quella che ci ipnotizza con quel suo moto ritmicamente ondulato.